Università Cattolica del Sacro Cuore

No alla guerra spettacolo: i morti sono veri

Le prime immagini reali di guerra risalgono a quella di Crimea, 1854. Fotografie di soldati, vivandiere, grappoli di proiettili. In posa, come i mezzi tecnici dell´epoca richiedevano. Già dieci anni dopo nelle foto della guerra civile americana compaiono però i morti, quelli della propria parte. Allineati, in attesa di sepoltura. La tragedia della guerra è evocata, e sublimata nel sacrificio di chi ha dato la vita. Ma non è visibile ancora nel suo orribile compiersi. Sarà il cinema dalla Prima guerra mondiale in poi a mostrarla in atto. Assalti alla baionetta, bombardamenti, feriti, prigionieri, rovine che crollano. Ma, come ancora nella Seconda, il mezzo tecnico più potente è monopolio dei comandi, racconta la guerra come si vuole che la si veda. Anche se la crudezza delle immagini, specie nella cinematografia tedesca - impiccagione di ostaggi, moltitudini deportate, avvilimento del nemico sconfitto - può suscitare sentimenti completamente opposti a quelli che i cineoperatori pensano di stimolare. Bisogna attendere però la guerra del Vietnam perché le immagini della guerra sfuggano decisamente al controllo ufficiale. Foto e riprese televisive e cinematografiche mostrano senza pietà che sporco affare sia la guerra, anche per i «nostri». Le immagini non raccontano più tanto la storia militare della guerra, quanto diventano l´occasione per una riflessione sapienziale su che possa diventare l´uomo, e la quantità di dolore enorme che può infliggere. E quanto orribile sia la guerra, malgrado ogni ragione e giustificazione le si possa trovare. Saranno immagini, quelle del Vietnam, che contribuiranno potentemente a instillare domande e dubbi nell´opinione pubblica occidentale su quella vicenda, a prendere coscienza, seduti tranquilli in poltrona, che la guerra non è frecce su una carta geografica, giovani belli e fieri, bandiere ed esibizione di potenza. Che la guerra schizza fango da tutte le parti, e può sporcare anche le cause più sentite. Lo terranno a mente i comandi americani nella prima guerra del Golfo. I giornalisti, e i cineoperatori in particolar modo, saranno coccolati, sommersi di informazioni ufficiali, ma tenuti lontano dal campo di battaglia. Non per niente le immagini più forti arriveranno dalla spettrale Bagdad notturna virata in verde dalle lenti per la ripresa con luce scarsa della Cnn e dal suo cielo costellato di luci che brillano un attimo e si spengono, i proiettili traccianti, i lampi delle esplosioni, il suono ritmato dei colpi della contrarerea come sottofondo. Li abbiamo rivisti nella ex Jugoslavia, in Medioriente, in tutte le guerre degli anni Novanta. Di nuovo solo evocazione della guerra nel suo farsi, ma evocazione terrifica, angosciosa. Non controllabile dall´alto, soprattutto. Ecco allora che per il prossimo conflitto, i comandi americani hanno allestito per i giornalisti confortevoli centri stampa, pieni di gadgets elettronici, di megaschermi, capaci di dar notizie di tutti i generi (sul tempo come sulle direttrici di marcia) in tempo reale. Ma dai quali la guerra sia, di nuovo, solo quella che si vuole appaia. Non per niente già si leggono i palinsesti delle prime possibili «storie». Bassora conquistata e festante, sciti che inneggiano agli alleati liberatori. E poi, bombe intelligenti che colpiscono l´obiettivo senza possibilità di errore e di danni ai civili. E così via. La guerra magari è davvero inevitabile, e dunque nel suo modo tragico ed estremo, legittima. Non ne voglio discutere qui. Quello che desidero però è che non la si riduca a spettacolo «per famiglie». Che non ridiventi faccenda asettica e pulita. Come quella di Crimea, paradossalmente. Garantita da una tecnologia al servizio del bene che, come allora i dagherrotipi oggi le meraviglie del virtuale, garantisce i nostri, e cancella gli altri. Non è questo la guerra. Non è uno spettacolo, un videogioco avanzatissimo e stupefacente. Di là dalla consolle non si accendono bit, muoiono uomini. E la partita non si ripete, perché i protagonisti hanno una vita soltanto. Non è questione di diffidare della propaganda, di cercare la verità fra le righe, di smontare sagacemente le immagini. Di fare buon giornalismo insomma. Questo è scontato. E di non giocare al gioco della guerra, in onda tutte le sere e per tutti se ci si lascia ammaliare dalle immagini e da una comunicazione militare che sarà facile e accattivante. Quanta simpatia poteva suscitare l´immagine da orso forte ma non aggressivo, franco ma professionale, del generale Schwarzkop alle conferenze stampe dodici anni fa. E intanto fuori campo, gli iracheni morivano a migliaia e gli americani venivano intossicati dagli agenti radioattivi, e chissà cos´altro, dei loro stessi proiettili esplosi. Ma attenzione, la guerra non è nemmeno uno spettacolo per soli adulti. Pornografia attraverso la violenza. Quello che nelle riprese del Vietnam era controinformazione, oggi corre il rischio di diventare sollecitazione della bestia che è in noi. Surrogato elettronico dei giochi dei gladiatori. Sangue e macelleria, l´eccitazione della morte in diretta. Vera morte, vera sofferenza, reality show al suo massimo. Altro che la rapina con morto, sbiadita dalle telecamere a circuito chiuso del negozio. Colori vivi, scene di massa, una storia nuova ogni giorno. Un grande spettacolo, un´audience formidabile, un traino formidabile per gli spot pubblicitari. E virtuosamente al servizio dello spettatore, in lotta con la censura liberticida. Per la verità, come la pornografia per l´arte. Una volta nelle chiese un cartello avvisava i fedeli della qualità morale dei film in programmazione nei cinema cittadini. L´ultima categoria era «escluso», divieto per tutti. Si vorrebbe poterlo ripetere per la guerra. E come spettacolo sicuramente merita tale giudizio. Ma per l´appunto se la guerra la si usa come spettacolo. Per spettacolari che possano essere le immagini che ci arriveranno a casa, dobbiamo guardarle ricordando sempre che non sono teatro messo in scena per il nostro piacere, né l´ingenuamente innocente né il consapevolmente perverso. E speriamo che anche i giornalisti ci aiutino a mantenere forte tale consapevolezza, a non giocare con la vita di nessuno.

21/03/2003