Università Cattolica del Sacro Cuore

Quando la globalizzazione parlava italiano

La storia italiana ha una strana particolarità rispetto a tutte quelle degli altri Paesi d´Europa. O meglio, ce l´ha la nostra storiografia. Esse tutte riconoscono nel passato nazionale momenti di crisi; solo quella italiana però, dall´Ottocento a oggi, ha ritenuto di poter ricostruire il movimento della nostra storia attraverso le categorie epocali di decadenza e risorgimento. Tutti a scuola abbiamo sentito parlare della famosa decadenza del Seicento, a tutti è stato spiegato che avviato dagli illuministi del Settecento si è innescato poi un processo di riscossa, di Risorgimento per l´appunto, che ha condotto all´Unità e, grazie alla lucidità di ristrette élite, malgrado tragedie ed errori, fino alla nostra Repubblica. Da ultimo, per la verità, gli storici sono diventati molto più prudenti sulla visione catastrofica del Sei-Settecento, vuoi dal punto di vista economico, vuoi da quello culturale e sociale. In effetti, si è dovuto constatare che da tutta Europa si veniva in Italia, fino almeno alla metà del Settecento, per rifinire la propria educazione e che la cultura italiana informava largamente di sé quella europea. Se oggi giudichiamo del prestigio internazionale del modo americano di vivere dalla diffusione della Coca-Cola, della musica rock, dei film, dei jeans e dell´influenza sugli svolgimenti artistici, pensando al successo dell´opera italiana e di architetti e pittori, ma anche delle botteghe del caffè e della lingua italiana, del modello delle accademie, sviluppatosi in Italia per l´appunto, fino a ritroso se vogliamo, all´ambientazione in una Verona mitica della storia di Romeo e Giulietta oggi credibile, guarda caso, piuttosto nel West Side di New York, abbiamo un primo impressionistico riscontro di quanto andiamo dicendo. E se rileggiamo i proclami di Napoleone prima e dopo la campagna d´Italia del 1796, quelli nei quali eccitava i soldati alla conquista facendo balenare davanti a loro le ricchezze straordinarie della pianura padana e gli altri in cui poi vantava al Direttorio la quantità di denaro e beni preziosi che da quella campagna aveva effettivamente tratto, ne abbiamo un altro sul piano economico. Tutte inventate dunque la crisi e la decadenza? Ma no, è vero che nel corso del Settecento gli italiani cominciano a interrogarsi sempre più insistentemente sulla loro posizione e identità in Europa, ma non perché siano oggettivamente decaduti, quanto perché si stanno rendendo conto che i modelli di riferimento stanno diventando altri, che magari ritornano dal resto dell´Europa a proporsi all´Italia come nuovi concetti e testi frutto di una rielaborazione creativa del fondo culturale italiano condotta in un modo cui sembriamo impari. Semplificando al massimo, possiamo dire che l´Italia culla della cultura classicista, del riferimento al modello degli antichi (un esempio per tutti: l´architettura) come base per la forma del vivere europea dal Cinquecento in avanti, si trova spiazzata di fronte all´emergere di una diversa categoria, quella di progresso, che si affaccia sulla scena a fine Seicento e che mette in crisi l´esempio del passato come strumento per orientarsi nel presente e nel futuro. Un futuro che grazie alla ragione può ormai esser diverso e migliore, pensano gli europei sempre più diffusamente nel Settecento, dal passato. Aggiungiamoci poi la Rivoluzione francese e la scoperta dell´idea di nazione, di patria, di Stato nazionale, di politica assoluta da un lato, dall´altro le nuove forme della produzione industriale inglese del secondo Settecento, e possiamo capire come gli italiani si trovino nella comparazione con questi modelli in difficoltà al principio dell´Ottocento e comincino a cercare le ragioni delle loro difficoltà. La Rivoluzione francese Le trovano coerentemente in ciò che ha impedito, essi credono, il formarsi dello Stato-nazione, grazie all´ordine liberale del quale tutte le energie si sarebbero liberate e l´Italia sarebbe per l´appunto risorta. Dunque la colpa è del predominio straniero (e Manzoni ci costruisce sopra il suo capolavoro) e poi, fallite le speranze del 1848 in Pio IX, della Chiesa, la quale, si riflette, ha sempre costituito un ostacolo all´unificazione. Poco importa che, come sopra si diceva, l´Italia del predominio straniero e dell´oppressione clericale fosse stata in effetti un modello per il resto d´Europa e che l´idea di nazione allora non si fosse ancora sviluppata. Per gli uomini dell´Ottocento che giudicavano secondo i propri problemi la storia, stava in quei dati di disarticolazione politica e di sudditanza la ragione dei «ritardi» italiani. Aggiungiamo che in realtà tutta la cultura europea doveva fare i conti, al principio dell´Ottocento, con l´ingombrantissimo cadavere del classicismo, uno scheletro che stava negli armadi di ogni cultura nazionale e di cui non ci si poteva liberare senza negare il proprio stesso passato. La soluzione fu di tradurre, alla maniera di Stendhal e di Madame de Staël, il mondo in cui gli antichi avevano vissuto e dai cui fino a poco prima si erano tratti esempi di vita in un mondo altro, fuori dalla storia, estraneo alla razionalità moderna, luogo della sensibilità e delle passioni: quello che descriverà l´Italia dell´Ottocento con briganti, mandolini, pugnali, sullo sfondo di rovine e di un dolce far niente. Gli italiani poveretti si troveranno schiacciati tra questa immagine, che faranno largamente propria, e la necessità di distaccarsene, di fare del mondo moderno, come avrebbe scritto De Sanctis, il proprio mondo. Si aprirà dunque la caccia a tutto ciò che sembrerà estraneo a un rigido parametro di modernità razionalistica. Si bollerà così come decadente e corruttrice la cultura, che l´Europa aveva a suo tempo preso a modello, del classicismo, si rimpiangerà che la Riforma in Italia non abbia trionfato, e si attribuirà alla Chiesa, che il classicismo aveva cristianizzato e creativamente riutilizzato, la responsabilità di aver tenuto lontano le masse dal progresso e dalla modernità. Si finirà così per vergognarsi degli antenati rinnegando la storia invece di comprenderla. E si valorizzeranno per contro come veri italiani quei piccoli gruppi o individui che si potranno descrivere, quali che fossero i loro differenti progetti, come di opposizione a tutto ciò. Saranno gli eretici del Cinquecento, Galileo, gli illuministi, e su su, i garibaldini e i mazziniani, Gramsci e il Partito d´azione. Saranno coloro che si proporranno, al di là delle loro scelte politiche di destra o di sinistra, come fustigatori del carattere degli italiani, raddrizzatori delle nostre cattive abitudini, da Crispi a Mussolini, da Prezzolini a Marinetti, fino ai principi del giornalismo contemporaneo, come Bocca o Montanelli. Tutto ciò significherà immaginare una storia d´Italia senza gli italiani e senza la loro storia come popolo, ridotta a storia di élite sempre generose e sempre sconfitte, ma sempre risorgenti e, se proprio, di masse che non capiscono e fanno resistenza: ai francesi della Rivoluzione, ai patrioti del Risorgimento, ai generali della grande guerra e così via. Il cattolicesimo italiano, vittima e complice di tale lettura, finirà perciò sul banco degli imputati con la maggioranza degli italiani e fino a oggi si perpetueranno i danni di tale interpretazione, nell´assenza di una prospettiva davvero laica e non finalistica di comprensione della nostra storia, nell´incapacità di scuoterci di dosso l´immagine dell´Italietta, nel malessere per una identità dalle origini vergognose. Da molti punti di vista, si dovrà affrontare questo drammatico nocciolo tematico, decisivo per il nostro futuro. Nel convegno dalla rielaborazione dei cui lavori è nato questo volume, è stato da quello del cattolicesimo, vissuto o giudicato, che si è aperto e svolto il discorso, nella speranza che altri voglia poi continuarlo secondo le proprie competenze e sensibilità.

03/05/2003