Università Cattolica del Sacro Cuore

Quei silenzi adesso fanno rumore

Ieri con grande evidenza Nello Aiello su La Repubblica annunciava la prossima uscita di un libro intervista a Vittorio Foa nel quale quest´ultimo, che veniva dal Partito d´azione e si schierò coi socialisti per aderire poi allo Psiup quando Nenni fece la scelta del centrosinistra, narra tra l´altro dei suoi «silenzi» e «doppiezze» in ossequio a un Pci togliattiano da cui accettava persino la censura delle idee, come le aveva espresse - ma le righe contro Stalin vennero tagliate - ad esempio in un articolo per la rivista ufficiale del partito, Rinascita. Dai partigiani a «Rinascita» Pochi giorni prima sul Corriere della Sera, Galli della Loggia prendendo a pretesto il successo del recentissimo volume di Pansa, vicedirettore de L´Espresso, sui massacri partigiani contro i repubblichini nel dopoguerra lamentava a sua volta che fosse ancora e sempre la sinistra a dettare i tempi della legittimità degli argomenti storici da studiare - come le rimosse violenze rosse dopo la guerra -, che insomma fosse la cultura della sinistra a stabilire i modi della memoria, e dunque in definitiva le caratteristiche storicamente accettabili dell´identità italiana. Colpa della destra, ha ribattuto Nicola Tranfaglia sul medesimo giornale, che non ha saputo produrre una propria cultura. Che è argomento interessante ma pure zoppicante. Perché sembra dire che l´onestà intellettuale degli storici emerge solo quando sia costretta da un avversario, o, come nel caso di Foa, solo a distanza di decenni, quando le passioni sono spente e ci si vuol tuttavia mettere la coscienza a posto. Mentre lo stesso Tranfaglia spiega, nel suo recentissimo «La transizione italiana» che lo storico parte sì da un interrogativo, e dunque da uno stimolo che può benissimo essere più che storico, ma svolge poi la sua ricerca «vagliando, con le armi della critica e con l´uso delle fonti» i documenti utili al suo lavoro verificando la fondatezza delle ipotesi o la necessità di modificarle. Insomma che lo storico è prima di tutto onesto con se stesso per essere credibile verso gli altri. Che è quello che gli storici si ripetono sempre fra di loro ma cui, evidentemente, non ritengono di dover sempre ottemperare e credere, perché esigenze politiche obbligano a limitare le verità ammissibili, perché i fatti possono essere scomodi per le ideologie, perché la laicità è un bel valore ma a tutto c´è un limite. Oltre il quale si deve pure intervenire. Chè altrimenti pullulano gli eretici. Un domani forse tutto ciò lo si potrà rimproverare a una storiografia postideologica divenuta maggioritaria, oggi non vi è dubbio che intolleranza e presunzione di verità per naturale superiorità ideologica sono appannaggio della sinistra. Lo stesso giornale che ieri menava virtuoso scandalo per le nequizie del Pci degli anni Cinquanta contro la libertà di opinione e di pensiero il 26 giugno di quest´anno pubblicava una lettera appello, sottoscritta in prima battuta da alcuni dei più illustri storici che si autodefinirebbero certamente di sicura fede democratica, chi laico, chi cattolico, da Paolo Prodi a Massimo Firpo, da Rosario Villari ad Adriano Prosperi, e cui poi seguirono molti altri, contro la nomina del professore di storia moderna all´Università di Cassino Roberto De Mattei a subcommissario del Cnr. La motivazione era che «senza soffermarci sul valore» di lui «come studioso, non possiamo» non constatare la «matrice fondamentalista di alcune sue asserzioni su momenti essenziali della democrazia occidentale», sui valori della laicità dello stato e del dialogo fra culture, sul suo così collocarsi in contrasto «coi principi fondanti la nostra Costituzione» e in «conflitto con le premesse della collaborazione scientifica internazionale», e ancora «coi caratteri originali della ricerca storica come strumento di conoscenza e di comprensione tra culture diverse». Non si discute il lavoro di De Mattei, che poteva essere un criterio scientifico di giudizio, non magari il suo essere solo professore associato, dunque a mezzo della carriera, che poteva esser un altro criterio, non la sua (eventuale) mancanza di esperienza in compiti tanto gravosi, che poteva essere una preoccupazione comprensibile. No, si giudicano le sue idee, e per le sue idee lo si condanna, con una sicurezza e con una violenza che lascia francamente esterrefatti. Il settarismo scomunicatorio E che non mi sembra la ceda in nulla al Pci degli anni Cinquanta e al suo settarismo scomunicatorio. È questa, oggi, qui e ora, nell´età della crisi delle ideologie che dovrebbe consigliare umiltà e moderazione l´idea di democrazia e di tolleranza della storiografia dominante? È questo il rispetto per le culture diverse? È questo che sa trarre dai principi costituzionali? Tranfaglia concludendo l´introduzione al volume sopra ricordato scrive «a chi mi chiede se viviamo già in un regime autoritario... rispondo che non ci siamo ancora arrivati, ma che il governo Berlusconi lo sta costruendo, passo dopo passo». Se è vero, certo non lo sta facendo a proposito della storia e della memoria. O non lui, comunque.

04/11/2003