- Milano
- Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
- Carte Mozzarelli
- 2004
- La lezione di Beccaria
La lezione di Beccaria
Il presidente Ciampi ha dichiarato che siamo figli di Beccaria per sottolineare come la tortura non possa trovar posto tra i nostri comportamenti. E quanto sia grave quel che è accaduto in Iraq è evidente. Non noi soltanto ma la nostra civiltà intera è figlia di Beccaria e il comportamento degli americani e, pare, anche degli inglesi, in realtà sporca tutti. A tutti toglie credibilità purtroppo, perché su tutti insinua il sospetto. E perché mostra le democrazie che rinnegano i propri princìpi appena ne vedano l´opportunità di fronte a ostacoli e difficoltà non previsti. Già Tucidide agli albori della nostra civiltà, duemilacinquecento anni fa, narrava la stessa storia. Nel secondo libro della sua storia della guerra del Peloponneso aveva inserito un discorso di Pericle alla fine del primo anno di guerra che era la celebrazione della superiorità culturale ateniese. Noi, diceva Pericle, siamo i soli che non giudicano inutile valutare pubblicamente «le varie questioni politiche, senza pensare che il discutere sia un danno per l´agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione». Noi, diceva ancora, diversamente dalla maggioranza delle altre Città Stato, «ci procuriamo gli amici non già col ricevere i benefici ma col farli», e «siamo i soli a beneficiare qualcuno senza timore, non tanto per aver calcolato l´utilità del beneficio ma per la fiducia che abbiamo negli uomini liberi». Per questo siamo «la scuola della Grecia», e per questo modo di vivere ci siamo procurati la nostra potenza. Quattro anni più tardi, quando le cose cominciavano a volgere al peggio, gli ateniesi, narra ancora Tucidide, cercarono di imporre la propria alleanza agli abitanti dell´isola di Melo, da sempre collegati agli spartani avversari degli ateniesi. È uno dei momenti più alti e drammatici del racconto. Quegli ateniesi che avevano vantato la loro superiorità di principi e azioni ora di fronte ai melii che rifiutano di tradire l´alleanza e si appellano al diritto, ai patti sottoscritti, rispondono brutalmente che al diritto ci si può richiamare quando la condizione sia pari, diversamente «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede», e che ora non si tratta di «decidere l´eccellenza dell´uomo», né dell´onore ma di ottenere la salvezza. Al rifiuto dei melii seguì l´assedio, e la città conquistata fu rasa al suolo. Ma gli ateniesi che avevano tradito i propri principi, fa intendere l´ateniese Tucidide il quale scrive dopo la fine della guerra, la persero. Perder la propria anima significava insomma già venticinque secoli fa perdere prima o poi anche la propria ragione, e le guerre stesse. Significava, come faceva dire lo storico agli ateniesi nella stessa occasione, che «l´odio è la prova della nostra potenza» quanto l´accettazione della neutralità dei melii lo sarebbe della debolezza. È veramente difficile sottrarsi alla tentazione di osservare quanto attuale possa apparire, una volta ancora, questa vicenda, e l´affermazione dei principi e il loro tradimento, e in qualche modo anche come vi si prefiguri un drammatico esito dell´attuale situazione irachena. Come drammatica fu la condizione della Grecia intera dopo la sconfitta di Atene. In questo quadro la vicenda delle torture ripetute e forse sistematiche non costituisce nulla più d´un vergognoso corollario. È la scelta dell´odio, è, alla fine, la convinzione dell´impotenza delle proprie ragioni. Osservava Beccaria già a metà del secolo XVIII nel «Dei delitti e delle pene» che affidarsi alla tortura significava far della giustizia «un affare di temperamento e di calcolo», privilegiare il reo robusto sull´innocente debole, pensare che calcolata «la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre di un innocente» si trattasse di «trovare il grado di dolore che lo farà confessare reo di un dato delitto». E, aggiungeva, quando anche fosse il reo a confessare, quanto poco ci si potesse fidare di quel che veniva rivelato sotto tortura lo provava il fatto che i giudici richiedevano, dopo, la conferma con giuramento di quanto dichiarato. E si noti che Beccaria parlava solo della tortura giudiziaria, nemmeno ponendosi il problema di altre forme e ragioni di tortura, e sottolineando come, da un lato i romani la ritenessero talmente vergognosa da poterla applicare solo agli schiavi - i quali erano considerati mere cose animate -, e dall´altra come la tortura storicamente non fosse nemmeno prevista «dalle leggi degli eserciti», pure composti allora «per la maggior parte della feccia delle nazioni». Peraltro, quando Beccaria scriveva già in diversi paesi la tortura giudiziaria era stata abolita come contraria alla dignità dell´uomo, e se pure la sua scomparsa totale dall´ordinamento giudiziario fu lenta - il codice penale austriaco prevedeva ancora a metà Ottocento la bastonatura per ottenere la confessione - essa fu comunque ineluttabile andando di pari passo con l´affermazione dello Stato di diritto e della democrazia. Questo non ha impedito che le stesse democrazie abbiano talvolta fatto ricorso alla pratica extragiudiziaria della tortura. Il caso della Francia durante la guerra d´Algeria è rimasto famoso, e però così pesante sulla coscienza di quel paese che solo oggi, dopo quarant´anni, il fatto viene riconosciuto apertamente. D´altra parte che la situazione sia divaricata tra principi e pratiche lo prova il fatto che attualmente, secondo Amnesty international, in oltre cento paesi si sono trovati casi di pratica della tortura. La bestia nascosta nell´uomo non sarà forse mai domata, ma certo che siano paesi che vantano la propria superiorità morale, paesi che scrivono, come sulla moneta da un centesimo di dollaro, «In God we trust», «In Dio noi confidiamo», a praticarla dimostra quanto tutti si sia a rischio e quanto grave possa essere una sottovalutazione anche di casi isolati. Quando poi la pratica paia normalmente accettabile, tanto da potersi ricordare in foto da riportare a casa, di cui magari si pensa un giorno di potersi vantare con gli amici, allora la situazione è davvero orribile, e disprezzo e odio devastano la terra. Certo, le democrazie più facilmente sanno reagire a tale stato di cose, quando per le dittature nemmeno il problema si pone. Ed è una differenza importante, dimenticarlo sarebbe un errore. Ma questo non ci può bastare. Per le ragioni generali che già conosceva Tucidide tanto tempo fa.
12/05/2004