Università Cattolica del Sacro Cuore

Il lavoro: fra diseguaglianze salariali e divari di genere

Il lavoro: fra diseguaglianze salariali e divari di genere
di Lorenzo Cappellari, Marco Ovidi, Matteo Sandi e Elena Villar

 

 

Analogamente a quanto accaduto nelle principali economie avanzate, anche l’Italia ha registrato nel 2023 una sorta di esplosione occupazionale, che ha portato alla creazione netta di mezzo milione di posti di lavoro, la maggior parte dei quali a tempo indeterminato. Questo impulso non è però sufficiente a colmare il divario occupazionale con i principali partners internazionali. Il tasso di occupazione si attesta per il 2023 poco al di sopra del 60%, dieci punti percentuali (p.p.) al di sotto degli Stati Uniti e 15 p.p. al di sotto della Germania. Permangono inoltre le ben note eterogeneità di genere e territoriali. Un tratto distintivo è inoltre rappresentato dallo spostamento dell’occupazione dai giovani agli anziani: mentre il tasso di occupazione nella classe d’età 50-64 è passato nel corso degli ultimi vent’anni dal 40% al 60%, quello per la classe 25-34 si è ridotto dal 70% al 60% nello stesso periodo, salvo poi recuperare terreno nel periodo post-pandemico. Tuttavia, il dato che sta attirando l’attenzione dei commentatori e dell’opinione pubblica negli ultimi mesi è quello sulle retribuzioni. Dal 1990 al 2020, l'Italia ha assistito a una sostanziale stagnazione delle retribuzioni in termini reali. Questo dato contrasta nettamente con le tendenze osservate altrove: negli Stati Uniti, i salari reali nello stesso periodo sono cresciuti del 50%, in Germania del 30%. Persino la Spagna, nonostante una performance meno brillante, ha segnato un aumento del 5%. La stagnazione salariale in Italia negli ultimi decenni è strettamente correlata al rallentamento della produttività del lavoro. A partire dai primi anni 2000 la produttività del lavoro in Italia ha smesso di crescere, mentre ha continuato a crescere tra i principali partner internazionali. Negli ultimi 30 anni la crescita media annua è stata del 2% negli Stati Uniti, dell’1.5% in Germania, dell’1% in Spagna e dello 0.65% in Italia. Il grosso della crescita italiana però si è realizzato dal 1994 al 2000, mentre la produttività è rimasta al palo nel periodo successivo. La stagnazione salariale non è uguale per tutti. La Figura 1 riporta l’andamento di redditi annuali e giornalieri negli ultimi trent’anni. In particolare, vengono riportati il primo decile (il livello salariale che separa il 10% inferiore della distribuzione dai salari superiori), la mediana (il salario che divide a metà la distribuzione) e l’ultimo decile (il nono, corrispondente al salario che separa il 10% superiore della distribuzione dai salari inferiori). Mentre la crescita dei salari giornalieri è abbastanza uniforme nelle varie zone della distribuzione, quella dei salari annuali è decisamente eterogenea: a una crescita di 20 punti percentuali al 90° percentile si contrappone un declino della stessa entità al 10° percentile. La differenza tra salari unitari e redditi annuali è spiegata dalle differenze nei tassi di occupazione. Mentre il tempo di lavoro non è variato per i redditi più alti (restando intorno alle 47 settimane Eco dai percorsi preparatori (bozza 29 maggio 2024) 2 annue), i lavoratori a basso salario hanno perso circa 10 settimane di lavoro annue dal 1990 al 2020. Questi dati mostrano come vi siano nel paese un problema di stagnazione dei salari e uno, collegato, di precarietà occupazionale. Tra le possibili cause della stagnazione vi è una bassa domanda di capitale umano. Le stime del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e ANPAL relative alla domanda occupazionale prevista nel quinquennio 2023-27 mostrano che il 34,3% del fabbisogno occupazionale riguarderà personale in possesso di una formazione terziaria (laurea o equivalente). Tuttavia, per questo quinquennio la quota di profili in possesso di una laurea sul fabbisogno del settore privato dovrebbe limitarsi al 21.5% del totale dei lavoratori dipendenti. Questo dato evidenzia una domanda di capitale umano nettamente inferiore nel settore privato italiano rispetto al resto dell’Unione Europea, dove le stime Cedefop indicano che il 56% delle opportunità professionali che emergeranno nell’Unione Europea richiederanno un alto livello di qualifiche (rispetto al 44% stimato per l’Italia). La stagnazione dei salari riguarda in particolare i lavoratori giovani. Il divario salariale tra i lavoratori over-55 e quelli under-35 è quasi raddoppiato tra il 1985 e il 2019 (+20 punti percentuali, Bianchi e Paradisi, 2024). Pur trattandosi di una tendenza globale, il divario risulta particolarmente pronunciato in Italia. Dati il rapido invecchiamento della popolazione e il declino della produttività nell’età avanzata, il dato potrebbe apparire sorprendente. Tra le cause principali risulta l’incapacità delle imprese di aggiungere posizioni apicali a causa di una diminuzione della produttività e di un aumento dell'età pensionabile. I lavoratori più anziani estendono le loro carriere occupando posizioni apicali più a lungo ed impedendo ai più giovani di raggiungere le posizioni meglio retribuite, configurando una “scomparsa” delle carriere. Al declino salariale dei giovani contribuisce anche la diffusione di contratti precari. Nel 2019, il 55% dei giovani inizia la carriera con un contratto a tempo determinato, rispetto al 35% nel 2009. Questi contratti registrano un salario medio di circa il 20% più basso rispetto ai contratti stabili. Sempre più frequentemente, il contratto a tempo determinato non è un passaggio verso la stabilizzazione, ma una trappola che si protrae nel tempo. La materia ha registrato negli ultimi anni interventi legislativi dal segno altalenante. Diminuendo i vincoli all’utilizzo del tempo determinato, il decreto Poletti del 2014 ha diminuito le conversioni in contratti stabili e generato un effetto negativo di medio periodo sui lavoratori coinvolti (Di Porto e Tealdi, 2024). Restringendo nuovamente i vincoli, il decreto “dignità” del 2018 ha aumentato la domanda di contratti stabili soprattutto per i lavoratori con un buon livello di capitale umano, con scarsi benefici per chi versa in condizioni di occupabilità più difficili (Grasso e Tatsiramos, 2023). Come inizialmente ricordato, permangono nel mercato del lavoro italiano significative dimensioni di eterogeneità, in primis quella di genere. Nonostante i recenti progressi, i divari di genere nel mercato del lavoro italiano rimangono elevati, relegando l’Italia ai margini della classifica europea sulla partecipazione femminile. La differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile, infatti, ammonta a 19.5 p.p, rispetto alla media europea di 10.2 p.p. (Eurostat, 2023). Dal 2005, il tasso di occupazione femminile è cresciuto di circa 7 p.p., Eco dai percorsi preparatori (bozza 29 maggio 2024) 3 raggiungendo il 52.3% nel 2023. Tuttavia, il dato cela forti disparità territoriali. Al Nord e al Centro, le donne registrano un tasso di occupazione pari, rispettivamente, al 62.3% e 58.3%, versus il 76.3% e 73.5% degli uomini. A grande distanza, invece, si colloca il Mezzogiorno, dove il tasso di occupazione femminile si arresta al 36% e il gap tra tasso di occupazione maschile e femminile sale a 24,5 p.p. La letteratura ha individuato tre snodi cruciali per spiegare la persistenza di tali differenze: la scelta dei percorsi scolastici, ancora altamente stereotipata (Carlana, 2019), la maternità e il difficile ruolo della conciliazione (Casarico e Lattanzio, 2023), e le difficoltà di carriera (Azmat e Boring, 2021). Intervenire su questi fattori è cruciale sia per una maggiore equità che per la crescita economica; infatti, se il tasso di attività femminile raggiungesse la media europea, la forza lavoro aumenterebbe del 10%, con effetti simili sul PIL nel lungo periodo (Carta et al., 2023).

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