Università Cattolica del Sacro Cuore

La sanità: tra diseguaglianze, ritardi e inefficienze

La sanità: tra diseguaglianze, ritardi e inefficienze
di Luca Gerotto, Luca Salmasi e Gilberto Turati

 

Siamo partiti da una domanda un po’ provocatoria che spesso capita di sentire quando si è in coda in qualche struttura ospedaliera. Dovremmo o non dovremmo privatizzare la sanità?
Prima di affrontare una domanda come questa è necessario anzitutto chiedersi cosa voglia dire “privatizzare la sanità”. Una prima risposta ha a che vedere con la riduzione della copertura pubblica della spesa; due sarebbero le implicazioni: la riduzione dei finanziamenti pubblici al Servizio Sanitario Nazionale (SSN), in percentuale della spesa sanitaria complessiva e, forse, anche in termini assoluti, necessariamente accompagnata da una ridefinizione, in senso restrittivo, dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). I LEA, che rappresentano la copertura della nostra assicurazione pubblica, al momento sono normati a livello nazionale, garantiti costituzionalmente e rappresentano un set molto ampio di servizi (di fatto escluse solo le cure odontoiatriche).
Una seconda risposta alla domanda iniziale riguarda, invece, la riduzione della produzione pubblica di servizi. Molti servizi, infatti, sono erogati dal privato convenzionato ma finanziati dal SSN: sono prodotti da strutture private ma pagati dall’assicurazione pubblica. Quello che cambia per i cittadini è quindi la natura di chi eroga il servizio, non le coperture garantite dal SSN. Su questo punto si fa molta confusione: la produzione pubblica è già oggi «limitata» in molti segmenti (es. riabilitazione e servizi socio-assistenziali). In base a questa interpretazione, una riduzione della produzione pubblica di servizi implica una riflessione sul ruolo che i produttori privati (profit e non) possono svolgere per migliorare l’efficienza allocativa - tramite forme di concorrenza con il pubblico - e il welfare collettivo – vista la domanda differenziata di servizi.

Il quadro oggi
Proviamo a cercare una risposta alla domanda precedente a partire da alcuni fatti stilizzati.
L’evidenza sembra contrastare la narrativa politica corrente. Partiamo dalle risorse. La spesa sanitaria pubblica (Figura 1) è costantemente cresciuta in termini nominali negli ultimi 25 anni; in termini reali, invece, ha avuto una flessione dopo la Grande Recessione del 2008-9 ed ha ripreso a crescere in modo significativo solo in corrispondenza della crisi pandemica.
Esaurito il periodo emergenziale, è tornata a flettere, ma la spesa reale resta comunque prossima al massimo storico. Secondo, in termini di peso relativo, la spesa sanitaria pubblica è più rilevante di quella privata. È arrivata a costituire fino all’80% della spesa sanitaria complessiva (Figura 2), salvo poi flettere dopo la Grande Recessione (in corrispondenza della flessione della spesa pubblica reale) ma non scendendo mai sotto il 75%. Terzo, in percentuale al Pil, la spesa pubblica si attesta poco sopra i 6 punti. Da un confronto internazionale,
una percentuale certamente inferiore a quella registrata in Francia e in Germania, ma in linea con quella di altri paesi con un Pil pro capite comparabile al nostro, come la Spagna; certamente maggiore della Grecia.
In termini di differenze regionali, quello che si nota è che la spesa sanitaria pro-capite è su livelli simili al centro ed al nord, ma inferiore al sud. Le differenze, che si sono ridotte nel tempo, sono legate alla demografia, visto che nelle regioni meridionali la popolazione è mediamente più giovane che nelle regioni del centro-nord. Al contempo, la spesa pubblica incide (in percentuale) maggiormente al sud che non al centro-nord, per via di una minore spesa privata in corrispondenza di un reddito pro-capite inferiore.
Alla luce di queste evidenze, quali sono le questioni aperte?

La rete dei servizi
Il punto di partenza dovrebbe essere una qualche idea sull’organizzazione della rete territoriale dei servizi; questa dovrebbe essere pensata sia alla luce della cosiddetta transizione epidemiologica e all’invecchiamento della popolazione, che comporta una crescente diffusione di malattie croniche, sia al rischio di possibili pandemie. Alla luce di questi mutamenti epidemiologici, la risposta unanime (anche dagli studiosi di salute pubblica) è che servono più cure territoriali e meno cure ospedaliere. La legislazione, in questo senso, c’è già: il DM 70/2015 fissa gli standard per ospedali più grandi e specializzati, il DM 77/2022 fissa gli standard per i servizi territoriali.
La logica del DM 70/2015 è quella di definire bacini d’utenza sufficientemente ampi per poter avere strutture di cura specializzate, in linea con l’evidenza del Programma Nazionale Esiti che suggerisce come, per una pluralità di trattamenti, maggiori sono i casi trattati, migliori i risultati clinici. Ne segue che la chiusura di quei presidi ospedalieri troppo piccoli e con volumi di attività ridotti, va anzitutto nella direzione di preservare la salute dei cittadini e solo in seconda battuta comporta spendere meglio le risorse che abbiamo a disposizione.
La logica del DM 77/2022 è quella di definire le strutture intermedie, ovvero i nuovi Ospedali della Comunità e le Case della Comunità, fra l’ospedale (dove si trattano le acuzie) e il domicilio del paziente, con Centrali Operative Territoriali a coordinare i flussi. Vi sono però tutta una serie di difficoltà di implementazione. In primis, la mancata verifica in termini di standard di posti letto/strutture rispetto ai fabbisogni, e la mancata definizione del ruolo del
privato rispetto alle esigenze del pubblico. In seconda battuta, le resistenze nella chiusura dei piccoli presidi per quanto attiene agli ospedali nonostante, come spiegato sopra, i primi a beneficiarne sarebbero proprio i pazienti. Non ultimo, si riscontrano resistenze nel tentativo di includere alcune figure professionali nell’operatività delle strutture territoriali; su tutte i medici di base, che non sono dipendenti pubblici ma liberi professionisti in convenzione.
La ristrutturazione della rete è necessaria: l’età media delle strutture ospedaliere è molto elevata, così come l’età media delle attrezzature per la diagnostica. Il PNRR (Missione 6) ha specificamente previsto fondi in questa prospettiva. Tuttavia, la spesa per rinnovare strutture e attrezzature dovrebbe logicamente seguire la programmazione della rete dei servizi in base al DM 70 e al DM 77.


Il personale
I confronti internazionali mostrano come nel nostro paese manchino soprattutto infermieri, non medici, e che tra i medici manchino soprattutto alcune figure (es. anestesisti, emergenza e urgenza, medicina del territorio, …). La programmazione, con l’aumento dei numeri di posti nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia, non ha minimamente preso in considerazione il mismatch e rischia di creare una «pletora medica» fra qualche anno, con diversi laureati in Medicina e Chirurgia che non avranno modo di specializzarsi. I livelli di remunerazione sembrano in linea con quelli di altri paesi, soprattutto per i medici, ma sul reddito incidono anche le possibilità di integrazione garantite dalla libera professione, e la responsabilità per errore medico (cioè il rischio di essere chiamati in giudizio) il che contribuisce a spiegare perché alcune specializzazioni siano meno appetibili di altre, e si verifichi una carenza di queste figure.


La remunerazione dei servizi
La logica dei quasi-mercati è stata introdotta con le riforme del 1992-93 e ha contribuito a migliorare l’efficienza allocativa del sistema, come mostra la riduzione marcata delle degenze medie. Tuttavia, il sistema di pagamento prospettico basato sui Diagnosis Related Group (DRG) è limitato ai servizi ospedalieri e richiede di essere manutenuto; le tariffe sono in molti casi datate e non tengono conto dell’evoluzione tecnologica. L’estensione dei quasimercati ai servizi territoriali è operazione più complessa, come dimostra l’esperimento dei Chronic Related Group (CReG) e la difficoltà di definire tariffe blended per la pluralità di produttori di servizi coinvolti nei percorsi per pazienti cronici.


Il finanziamento delle regioni e le diseguaglianze nei LEA
Un altro tema chiave è l’allocazione del finanziamento alle regioni. Poiché una parte dei fondi sono raccolti con imposte “a carattere regionale”, come l’Irap e l’Addizionale Regionale Irpef, la narrativa corrente sembra suggerire che le risorse a disposizione di ciascun Servizio Sanitario Regionale siano strettamente legate alla capacità fiscale – e, quindi, fondamentalmente, al Pil – di quella Regione. Le regole attuali suggeriscono un’altra storia: primo, la maggior parte delle risorse arrivano da imposte nazionali e anche le imposte “a carattere regionale” non permettono alcuna reale autonomia fiscale alle regioni; secondo, l’allocazione alle Regioni scaturisce da una formula di riparto, al momento ancora basata su un fabbisogno calcolato come pro-capite per il 60% della spesa, con un aggiustamento in base all’età per il restante 40%. Nell’ultimo riparto sono stati considerati anche fattori innovativi come «mortalità under75» e «povertà, scolarizzazione, disoccupazione» fortemente richiesti dalle regioni del Sud, ma su percentuali molto limitate della spesa (entrambi 0,75%).
Questo mancato allineamento fra la responsabilità gestionale e quella fiscale fa sì che la tenuta del sistema sia demandata al controllo amministrativo dal centro basato sui Piani di Rientro regionali. Il rischio di soft-budget constraint è però molto elevato quando il finanziamento è integralmente (o quasi) a carico del governo centrale. Questo tema è totalmente dimenticato dal progetto di autonomia differenziata ex-art. 116 Costituzione.
In aggiunta, il sistema pubblico – allocando le risorse sulla base del fabbisogno - dovrebbe garantire l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza in tutte le Regioni. Ma per i LEA, introdotti nel 1999, si osservano chiare differenze tra Regioni, con il Centro-Nord che produce migliori risultati rispetto al Sud. Nonostante il monitoraggio del Ministero della Salute e i Piani di Rientro (che hanno come obiettivo, sia quello finanziario, sia quello di miglioramento dei LEA) non si è ancora attivato un serio processo di convergenza.

 

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